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Unidimensionalità

All’inizio del Novecento la politica diventa fenomeno di massa: nascono i sindacati, i partiti di massa, il dibattito politico cessa di essere controllato da pochi eletti. Lo storico tedesco Karl Dietrich Bracher definì il Novecento “il secolo delle ideologie”: l’ideologia (naturalmente, insieme a fattori di carattere economico e geopolitico) ha infatti rivestito un ruolo chiave nella scrittura della storia del secolo scorso. Così è stato anche nel nostro Paese, in cui il fascismo, sviluppatosi in contrapposizione al biennio rosso 1919-20, venne travolto, dopo vent’anni di dittatura, dall’azione partigiana (e da quella, di carattere più strategico che ideologico, dell’esercito statunitense): oltre alla contrapposizione fascismo-antifascismo, nei giorni della Resistenza si riaccese anche quella rossi-neri, fascismo-comunismo (senza voler dipingere una Resistenza tutta bandiere rosse, alla Bertolucci, è innegabile che buona parte dei partigiani fosse comunista). Poco dopo la Liberazione, il mondo venne diviso in blocchi, e l’Italia venne posta sotto l’influenza USA: il PCI sarebbe rimasto per sempre all’opposizione (se si esclude la breve esperienza del compromesso storico, che però nacque già morta – la fiducia al governo si votò infatti lo stesso giorno del rapimento di Moro, fautore dell’apertura della DC ai comunisti). L’Italia è stata governata per quarant’anni da governi di centro (e centro-sinistra, ma il PSI fu sempre di una sinistra piuttosto moderata, anche se contribuì a realizzare importanti riforme sociali), però il dibattito politico all’interno del Paese era vivo, talora tanto acceso da sconfinare nella violenza: l’apice di questa tensione si ebbe negli anni Settanta, dilaniati da due terrorismi, quello di matrice fascista e quello di matrice comunista, la cosiddetta lotta armata. Ritengo interessante analizzare una modalità d’azione particolare del potere, che, per rimanere egemone, spesso alimentò questa contrapposizione. Le connessioni di settori deviati di Stato e servizi con il terrorismo nero sono accertate e se ne può leggere in quasi tutte le sentenze che hanno posto termine ai processi delle stragi – era la “strategia della tensione”: colpendo obiettivi indiscriminati, si volevano scatenare ansia e panico e indurre le istituzioni all’adozione di risposte repressive e autoritarie nei confronti delle sinistre, specialmente nelle loro declinazioni extraparlamentari. Il terrorismo rosso ha una storia diversa e motivazioni diverse (colpiva obiettivi specifici, considerati elementi chiave della classe dirigente e/o corresponsabili della perpetrazione del sistema economico-sociale che intendeva scardinare, “disarticolare”), ma in diverse pubblicazioni accademiche si ipotizzano direzionamenti e favoreggiamenti dello stesso da parte dei servizi: lo storico Angelo Ventura scriveva che il terrorismo rosso era un modo “per proseguire, con altri strumenti, la strategia della tensione; oppure semplicemente preferiranno [le forze moderate] lasciare mano libera alla violenza estremistica, che imbarazzava, screditava e al contempo erodeva da sinistra i partiti comunista e socialista e i sindacati […] Il terrorismo poteva essere stroncato sul nascere, almeno sin dal 1972, e ridotto a fenomeno sporadico.” Creando divisioni, tensioni, situazioni emergenziali, il potere fa sì che siano legittimati, o addirittura sperati, un suo rafforzamento e una sua torsione autoritaria: l’asse politico italiano, specialmente dopo l’omicidio di Moro, si posizionò su un immobile centrismo (linea su cui si attesterà poi anche Craxi al governo), e il PCI venne escluso per sempre da ogni ipotesi di partecipazione governativa.

Da quel decennio complesso e difficile sono passati cinquant’anni, e sembra di essere in un altro mondo. In “La mia generazione” (1996), film di Wilma Labate, c’è una scena in cui il Capitano dei Carabinieri dice all’ex brigatista: “Siamo dalle parti opposte della barricata, solo che le barricate non le fa più nessuno." Il film è del 1996 ed erano ancora altri tempi, con il movimento no global che si stava sviluppando (morirà presto, nella repressione del luglio 2001, a Genova). L’aria però era già cambiata, e si presentiva ciò che ora è realtà, cioè che le barricate non le fa proprio più nessuno, e questo perché qualsiasi tipo di scontro dicotomico è scomparso: se negli anni ’70 il potere sfruttava la contrapposizione per creare una situazione di tensione e panico, oggi se ne guarda bene dal riaccenderla, trovandosi comodamente ad agire indisturbato ed egemone. L’azione del potere è diventata totalitaria, l’opposizione è stata ridotta “al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo”: scriveva così Herbert Marcuse ne “L’uomo a una dimensione” (1964). Era ancora di là da venire il Sessantotto, ma il filosofo - che viveva negli USA e si trovava immerso in un panorama politico diverso da quello italiano, già più unidimensionale -, indagando con occhio intelligente le dinamiche sociali, già sottolineava: “non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un ‘pluralismo’ di partiti, di giornali, di ‘poteri controbilanciatisi’, ecc”. Marcuse individuava come responsabili di questo nuovo totalitarismo il carattere razionale dell’organizzazione sociale post-industriale (erano gli anni del boom e dell’aumento generalizzato dei livelli di vita) e i nuovi mezzi di persuasione e propaganda di cui il potere poteva far uso, per mezzo dei quali “l’indottrinamento cessa di essere pubblicità: diventa modo di vivere”. Un altro elemento che contribuisce a rendere totalitaria e repressiva la società industriale avanzata, secondo Marcuse, è l’annullamento della dimensione privata (“nella società [precedente a quella post industriale] esistevano condizioni tali da provocare e permettere una reale dissociazione dallo stato di cose stabilito; esisteva una dimensione privata non meno che politica in cui la dissociazione poteva svilupparsi in opposizione effettiva”), che è ora portato alle estreme conseguenze attraverso l’utilizzo di massa, oltre che della TV, di smartphones, internet e social: siamo costantemente sottoposti a propaganda, che, si noti bene, non ha quasi mai carattere effettivamente politico – anzi ha come obiettivo una spoliticizzazione delle masse, attraverso “la formulazione e disseminazione di opinioni, informazioni, intrattenimenti apolitici”. Le uniche rivendicazioni ancora vive sono quelle per i diritti civili, quasi sempre portate avanti nei termini stabiliti da influencers milionari e dalle politiche aziendali delle multinazionali, che le hanno fatte proprie con l’obiettivo di svuotarle di ogni significato rivoluzionario: così è all’ordine del giorno, giusto per fare un esempio, trovare slogan femministi o di “body positivity” all’interno di pubblicità di vestiti o di prodotti cosmetici (cosmetici che non avrebbe senso comprare se i messaggi di “body positivity” si traducessero nell’amore per il proprio corpo – obiettivo che evidentemente non è e non può essere quello perseguito dalle aziende produttrici). In ogni caso, anche queste battaglie (che, come si è visto, minacciano ben poco l’ordine stabilito) si combattono sempre più sui social che nelle piazze: si ricondivide un post, ci si sente la coscienza a posto, si prosegue la giornata come se nulla fosse. La piazza, le sezioni di un partito, le sedi di un movimento (per carità, senza che l’attivismo sconfini nell’estremismo e nella violenza), tra una manifestazione e un’assemblea, erano occasioni collettive d’incontro, di conversazione, di scambi e costruzioni di idee. Tutto questo non esiste più, o almeno non costituisce più un fenomeno di massa, su cui si costruisca la coscienza sociale e politica di una generazione.

La generazione cui dà voce Wilma Labate era disillusa, in più casi pentita, sicuramente sconfitta, reduce da esperienze politiche che erano finite per diventare solo storie di violenza e morte. La mia generazione, invece, si compone di individui perennemente collegati, attraverso un dispositivo, alla rete, a social e piattaforme online, ma s-collegati fra loro e soprattutto dal reale e dal contesto sociale da cui provengono, da cui si estraniano, drogandosi di prodotti multimediali e (sotto)culturali di massa. Alle politiche di settembre l’affluenza è calata di nove punti percentuali, attestandosi al 63,9%; alle scorse regionali l’affluenza è stata del 37,2% in Lazio e del 41,67% in Lombardia: d’altra parte, se la politica non si fa più in piazza, a lavoro, a scuola, perché si dovrebbe fare per i cinque minuti del voto in cabina elettorale? È la fine della democrazia?

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