1896: Svante Arrhenius (sì, quello della prima teoria sugli acidi e le basi) teorizza che l’aumento della concentrazione di anidride carbonica (CO2) in atmosfera può provocare un aumento delle temperature globali. 1958: iniziano a essere raccolti dati sulla concentrazione di CO2 in atmosfera su vulcano Mauna Loa e si inizia a definire la curva di Keeling legata all’aumento di carbonio in atmosfera. 1977: la Exxon, colosso statunitense del petrolio, scopre che le sue attività avranno conseguenze ambientali e climatiche devastanti. Scegliete la data che volete, in ogni caso, che sia 50, 70 o 130 anni, è da troppo tempo che sappiamo delle conseguenze della crisi climatica e ambientale. Non è un’esagerazione: gli studi Exxon erano così precisi rispetto al danno che l’azienda stava facendo da risultare quasi profetici. Per chi non lo sapesse, la Exxon (oggi ExxonMobil, in italia Esso) provoca da sola il 2% delle emissioni mondiali ed ha storicamente le peggiori colpe. Tutt’oggi è una delle aziende più controverse e non sta dando alcuna risposta (nemmeno di facciata) all’attuale crisi climatica e ambientale. Negli anni ‘80 questa azienda aveva deciso di non diffondere i risultati delle sue ricerche ma, anzi, di sfruttare queste conoscenze per organizzare campagne di disinformazione. Forse ci ricorda i tempi in cui le industrie del tabacco falsificavano i rapporti sul rischio del clima, ma qui si tratta di ben di peggio: la Exxon in questi decenni ha speso decine di milioni di dollari in aziende della comunicazione per diffondere notizie false o non sottoposte a basi scientifiche corrette. Ovviamente la storia è piena di esempi di questo tipo. Probabilmente però, per non andare troppo fuori tema, basta ricordare la disinformazione legata all’industria del tabacco e sul DDT, il potentissimo insetticida che negli anni ‘50 e ‘60 provocò danni terribili fino a quando fu bandito in vari Paesi del mondo solo verso gli anni ‘80. Anche in questi casi la cosa più importante fu la mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso l’informazione, spesso dal basso, portata avanti senza sosta attraverso i metodi più disparati. Il caso di Exxon però è il più emblematico, anche perché fu seguito a ruota da altri. Negli anni ‘80 la Shell, altro colosso petrolifero, raggiunse le medesime conclusioni e scelse di sponsorizzare notizie false e subito dopo la Chevron. Queste aziende hanno stanziato fino a centinaia di milioni di dollari per portare avanti studi sulla crisi climatica per poi trovare il modo migliore per negarla.
Da una decina di anni questo metodo è diventato troppo complesso da portare avanti e le aziende si sono invece adattate a cercare metodi comunicativi differenti, ma non dissimili dal negazionismo. Possiamo individuare diversi livelli di negazionismo climatico, schematizzabili in uno schema a diagramma cartesiano. Sull’asse delle X mettiamo il tempo. Aumenta il tempo e aumenta la consapevolezza della crisi, i dati scientifici a supporto e il “rischio” che si agisca contro la crisi. Sull’asse delle Y invece poniamo il livello di negazionismo classico: insomma, in alto c’è il negazionismo netto e puro, al centro c’è lo scetticismo e sullo zero troviamo la concordanza con la crisi. All’aumentare di X diminuisce Y. Una buona notizia? Non proprio: infatti, mentre diminuisce Y, cambiano i metodi di negazionismo. Se all’inizio la strategia negazionista sarà il rifiuto netto, il passaggio successivo sarà invece quello di attaccare le basi scientifiche della crisi. In seguito la strategia sarà quella di spiegare che sì, la crisi è vera, ma meno di quanto viene detto. Quando però il consenso sulla veridicità della crisi sarà ancora maggiore e ci si appresta a Y=0, la strategia sarà quella dei cambiamenti di facciata che, nel caso della crisi climatica, coincide con il Greenwashing, una strategia comunicativa del consenso che però, di fatto, non coincide con la reale azione. Cosa fanno le aziende a Y=0? L’ultimo passaggio della comunicazione: dire che ormai è troppo tardi e, possibilmente, che la colpa è di altre persone che non hanno agito quando potevano. Il nostro compito è quello di fare sì che l’informazione cambi nel modo giusto: in questo momento, senza un piano comunicativo buono, la crisi climatica resta in mano alle aziende del fossile.
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