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Recensione del libro "Il Fuoco" di Gabriele D'Annunzio


"Il popolo consiste di tutti coloro i quali sentono un oscuro bisogno di elevarsi, per mezzo della Finzione, fuor della carcere cotidiana in cui servono e soffrono."

Mi scuserete, ma quando si parla di D’Annunzio fatico ad essere razionale, oggettiva e lineare nei ragionamenti. Mi perdo, sospesa nella stregante atmosfera dannunziana, con l’intento di rimanere in questo stato d’estasi che mi procura il più a lungo possibile. Dunque, cari lettori, non aspettatevi la classica recensione, quanto piuttosto le fantasticherie sconnesse di una visione. Il Fuoco di D’Annunzio non è un libro, ma un dipinto. Uno di quei quadri che va assaporato, sostando sulle antiche sedie dei musei, ormai consunte dall’uso, per fissare l'opera. E anche quando sei rimasto ore ad osservare ogni pennellata e sfumatura, ogni ombra e intenzione della mano che ha tracciato quei segni, scopri sempre qualcosa di nuovo, di sorprendente, che ti spinge a rimanere ancora un po’, con il fiato sospeso e gli occhi sbarrati. Quando troviamo un quadro che suscita una tale gioia, inquietudine e grandiosità da rimanere in estasi fino alla mai totale comprensione del soggetto, sappiamo riconoscere la felicità, e ci impegniamo a custodirla con gelosia. Ecco cosa ho ritrovato in quest’opera. Sarei rimasta ore eterne e preziose a godere di quelle fresche e curate pennellate che D’Annunzio è in grado di dipingere: i tratti rosseggianti del tramonto veneziano, il colore smeraldo che si riflette tra i capelli dell’estate che riposa sui fondali della laguna e ancora il pallore grigiastro, che atterrisce, delle gote della ammaliante Foscarina. Tuttavia, il tratto dannunziano non si limita ad appagare soltanto l’occhio della mente: egli infatti intende donare il soffio della vita al suo quadro, che diventa pregno di emozione, di vitalità e di sentimento, in una maniera tale da sottrarre l'abilità e la forza di discernere cosa sia reale e cosa non lo sia. Sicuramente questa ricchezza straripante di trasporto emotivo e di sensazioni dell’anima è dovuta al fatto che il racconto sia quasi del tutto autobiografico. Alter ego dell’autore è dunque Stelio Effrena, che con la sua retorica sublima ogni cosa, come un tocco magico: il tocco del vate. L’opportunità che D’Annunzio ci offre è quella di poter accedere alla mente di un poeta, creato a sua immagine e somiglianza, un uomo quindi eletto che vive per l’arte e per il quale l’arte stessa vive. È inoltre indiscusso il forte contrasto tra il personaggio di Stelio, quasi divinizzato, e quello della Foscarina, identificabile con Eleonora Duse, che è del tutto mortale e, come tale, travolto e schiacciato dalla potenza delle emozioni, delle sofferenze e tribolazioni umane; il poeta ci appare sopraelevato in un piano che trascende la realtà, egli è il detentore di una conoscenza universale, quasi mistica e sconosciuta, e a questo ignoto si prostrano tutti: l’amante, gli amici, gli ammiratori, il pubblico e di fatto anche il lettore si sente in qualche modo toccato e purificato dalle parole di Effrena.

"Nelle anime rudi e ignare la sua arte, pur non compresa, per il potere misterioso del ritmo recava un turbamento profondo, simile a quello del prigioniere che sia sul punto di essere liberato dai duri vincoli."

Come amplificatrice della gloria eterna del poeta troviamo l’attrice Foscarina, che, al contrario dell’amante, si sente travolta dalla pesantezza dei suoi anni, dallo scorrere incessante della vita e dalla fragilità dell’esistenza umana, (la presenza quasi ossessiva del tema trova riscontro nell’angoscia che ha sempre tormentato l’autore stesso). L'attrice è attanagliata dalle insicurezze e da un terrore morboso di perdere quel dono, quella concessione d’amore promessale da Stelio; ella è consapevole di quanto risulti fragile e precario un tale sentimento, quando è riposto nelle mani di un uomo che è già totalmente devoto ad un’altra donna: l’Arte. L’animo stravolto e sconvolto della donna, che ci appare dunque come una cappa di nuvole grigie nell’afa estiva, è rischiarato dalla sola presenza di Stelio, che invece risulta del tutto estraneo e lontano da questo dolore mortale. Eppure il lettore, pur compatendo e a tratti impietosendosi per la povera e fragile Foscarina, non sente di dover rimproverare la noncuranza del poeta, la sua libertà da qualsiasi vincolo empatico, e ne accoglie semplicemente la grandezza. Questa ammirazione priva di biasimo è forse da imputare allo stesso incantesimo da cui sono affetti i personaggi del libro. Come questi, anch’egli è quindi stregato e avvolto dalla malia incantatrice del poeta e beve avidamente ogni sua parola e ogni suo gesto. La vicenda che viene sviluppata è statica, non risultano intrecci, complicazioni o colpi di scena; questo è dovuto al gusto e alla capacità tipica di D’Annunzio di dilatare ogni singolo atto, parola, respiro, il tutto viene amplificato dalla prosa abbondante, sublime e scenica dell’autore, la quale purifica e rende tutto ciò che tocca infinito, ricco e magico. L’opera termina con una scena emblematica: il poeta, assieme ai colleghi e compagni, trasporta il feretro di Richard Wagner, concludendo così nella morte un'apoteosi di arte, poesia e amore. Aurora Dicarlo

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